Pioniere delle vette
Nel numero precedente di Scampoli vi ho parlato dei pionieri dell’aria, ora vorrei raccontarvi dell’altra metà del cielo: donne che si sono cimentate, con grande coraggio e tenacia, in uno sport tradizionalmente appannaggio degli uomini, l’alpinismo.
Questo sport visse la sua epoca d’oro nella seconda metà dell’Ottocento, che fu testimone della conquista delle maggiori vette mondiali. Se pensate, tuttavia, che a mettere piede sul cucuzzolo della montagna (per dirla con Rita Pavone) fossero solo aitanti gentiluomini dai baffi a manubrio, vi sbagliate di grosso. In epoca vittoriana, un esercito di donne di tutte le età era impegnato ad affrontare scoscesi declivi e insidiosi ghiacciai, in gonna, cappello e polacchine. Con qualche utile accorgimento: ad esempio, degli anelli fissati all’orlo della gonna nei quali fare scorrere un cordino per poterla sollevare nei passaggi difficili. Le gonne al ginocchio con sotto i pantaloni o i più comodi calzoni alla zuava faranno la loro comparsa solo in seguito, così come il tessuto gabardine brevettato da Thomas Burberry nel 1888: morbido, traspirante, resistente all’usura e soprattutto all’elevata umidità. Una vera rivoluzione: prima di allora, gli abiti erano impermeabilizzati con una mistura casalinga di acqua, sapone e olio di semi di lino bollito.
La passione per le scalate aveva contagiato anche le teste coronate d’Europa. La regina Vittoria, appena insediatasi nel castello scozzese di Balmoral, si era cimentata nella scalata delle aspre cime locali. E la nostra regina Margherita di Savoia, il 18 agosto 1893, aveva raggiunto la Punta Gnifetti del Monte Rosa per inaugurare il rifugio alpino più alto d’Europa, nonché uno degli osservatori fissi più alti del mondo: la Capanna Margherita, a quota 4554 metri.
“Sempre più donne si appassionano all’alpinismo”, notava il periodico The Queen. In un’epoca in cui lo sport femminile era considerato immorale e innaturale, se non addirittura nocivo alla salute, la conquista delle vette rappresentava un mezzo per uscire dal ruolo di angelo del focolare e rivendicare i propri diritti. Come faceva l’americana Fanny Bullock-Workman (1859-1925) che non perdeva occasione per promuovere la causa femminile attraverso le proprie imprese sportive.
Curiosamente, l’amore per l’alpinismo a volte nasceva da esigenze terapeutiche. La leggendaria alpinista inglese Lucy Walker (1836-1916) iniziò la sua carriera all’età di 22 anni dopo che il dottore le aveva raccomandato un soggiorno sulle Alpi per curare i reumatismi. E l’irlandese Elizabeth Hawkins-Whitshed, per gli amici Lizzie Le Blond (1861-1934), scoprì la passione per la montagna durante una convalescenza in Svizzera per curare la tubercolosi. In barba agli acciacchi, entrambe annoverarono un numero incredibile di ascensioni nel corso della loro prolifica attività.
Walker scalò 29 cime di 4000 metri e fu protagonista di 16 prime ascensioni femminili, inclusi il Monte Rosa e il Cervino; Le Blond, una pioniera dell’alpinismo invernale, conquistò 37 vette, tra cui i 3901 metri del Piz Palu insieme a Lady Evelyn McDonell, in una spedizione tutta al femminile considerata all’epoca “sconveniente”. C’è da dire che tanta passione era resa possibile non solo dalla personale propensione all’avventura, ma anche da una condizione economica agiata (Walker era figlia di un facoltoso mercante di Liverpool, Le Blond una ricca aristocratica), che consentiva loro di dedicarsi ad attività “indecorose” senza tema di finire emarginate dalla società.
A differenza della schiva Walker, che rifuggiva dalla pubblicità e la cui massima trasgressione era combattere il mal di montagna con sponge cake e champagne, Le Blond era una sorta di ciclone in gonnella che si cimentò anche con il toboga, il pattinaggio su ghiaccio e le gare automobilistiche (oltre che con tre mariti). Nel 1907 fondò a Londra il Ladies' Alpine Club e fu autrice di diversi libri di viaggio, nonché un’abile fotografa e cineasta, probabilmente la prima a effettuare riprese in quota.
La gloriosa storia dell’alpinismo femminile proseguì con la fondazione del Ladies Scottish Climbing Club nel 1908 e del Pinnacle Club nel 1921. Benché ancora troppo dispendioso per diventare uno sport di massa, scalare montagne poteva ormai considerarsi socialmente accettabile. I giornali dedicavano spazio ad articoli di moda e consigli per le appassionate delle vette, a volte firmati da scalatrici esperte, come la neozelandese Constance Alice Barnicoat (1872–1922). In Mountaineering for the Preservation of Youth and Beauty, pubblicato sul Midland Counties Tribune del dicembre 1910, Barnicoat esaltava l’alpinismo quale cura ideale per i nervi e un fisico giovanile, citando a suffragio della propria tesi l’opinione di un “ben noto alpinista”, su cui non possiamo che convenire:
Un’alpinista sarà sempre una buona moglie e una buona amica.
Eclissi sonore
L’eccezionale eclissi solare di aprile è stata sulla bocca di tutti, ma purtroppo non negli occhi di tutti. Sono sempre stata sensibile al tema della disabilità visiva e quando mi sono imbattuta nel Lightsound Project, l’idea mi è sembrata un’idea straordinaria. Il progetto, fondato nel 2017 da un team di astronomi e scienziati del Center for Astrophysics | Harvard & Smithsonian, ha sviluppato un dispositivo portatile che consente anche alle persone non vedenti e ipovedenti di godere di una eclisse solare.
Alla base del suo funzionamento c’è un processo chiamato sonificazione, in grado di trasformare una serie di dati in suoni e melodie, permettendo così di indagare attraverso un approccio acustico fenomeni di qualsiasi natura. Considerando il sistema uditivo come un ulteriore sistema valido per l’interpretazione di dati, la sonificazione ha trovato applicazione, a partire dagli inizi del XX secolo, in numerosi campi di indagine, dallo studio dei vulcani attivi all’analisi della proteina spike del virus Covid-19.
Nel caso specifico del Lightsound, il dispostivo converte le variazioni di luce dovute al passaggio della Luna davanti al Sole in note di flauto, clarinetto e fagotto che accompagnano il progressivo offuscarsi della luce, per poi terminare in una successione di clic che segnala il momento dell’oscurità totale.
L’idea che esista una correlazione tra corpi celestiali e suoni non è certo una novità. Il concetto di “musica universale” o “armonia delle sfere”, impercettibile dall’orecchio umano, risale a Pitagora. Keplero nel suo Harmonices Mundi (1600) parlava dell’esistenza di un coro dei pianeti formato da un tenore (Marte), due bassi (Giove e Saturno), un soprano (Mercurio) e due alti (Venere e Terra).
Tornando con i piedi per terra, il Lightsound si usa con le cuffie o uno speaker. Funziona a batterie o è collegabile alla porta USB di un computer (in questo caso, è possibile registrare la sonificazione e, volendo, inviarla al team di ricercatori). Il progetto è open source, nel sito sono disponibili istruzioni in inglese, francese e spagnolo per costruire il dispositivo, ma è possibile anche richiederne uno già pronto. In vista dell’eclisse 2024, ai ricercatori del progetto sono arrivate ben 2000 richieste, e non tutte da persone con disabilità.
Se volete provarlo anche voi, ecco un elenco delle future eclissi solari e lunari nel mondo. Le prossime eclissi solari visibili in Italia avranno luogo il 29 marzo 2025, il 12 agosto 2026 e il 2 agosto 2027, quest’ultima da non mancare: sarà totale a Lampedusa.
Jimson weed
Bella e fatale. No, non è lo slogan di un film con Jean Harlow. Stiamo parlando della Datura stramonium, popolarmente nota come erba del diavolo, erba delle streghe, noce puzza, noce del diavolo, mela delle spine o noce velenosa. Questa pianta della famiglia delle Solanacee prospera nei climi temperati e sub-tropicali di Asia, America ed Europa. In Italia la si trova un po’ dappertutto, in particolare nei terreni incolti, vicino ai ruderi e ai margini delle strade, dove schiude gli affascinanti fiori bianchi o violetti con il favore delle tenebre, attirando gli insetti impollinatori con il suo odore penetrante. Sarebbe già abbastanza per conferirle un’aura di mistero, ma quello che giustifica i suoi minacciosi nomi popolari è ben altro.
Ogni parte della pianta, infatti, è estremamente velenosa in quanto contiene elevate concentrazioni di potenti alcaloidi, in particolare scopolamina e atropina, dalle proprietà narcotiche, sedative e allucinogene. In passato, era usata a scopo terapeutico nella medicina popolare per curare l’asma bronchiale (sotto forma di sigarette), la depressione e perfino l’irrequietezza notturna dei bambini. Tuttavia, le sue proprietà trovavano impiego anche per fini diversi, quali rituali sciamanici, suicidi e avvelenamenti. Alcuni ipotizzano che la Datura sia alla base della pozione usata da Giulietta Capuleti per simulare la propria morte (benché ci siano molte altre teorie sui veleni nelle opere di Shakespeare) o di quella somministrata da Circe ai compagni di Ulisse per trasformarli in maiali, ipotesi quest’ultima non del tutto peregrina, considerato ciò che sto per raccontarvi.
Ad attirare la mia attenzione, infatti, è stata la curiosa storia dietro uno dei tanti nomi inglesi della pianta, Jimson weed. Il termine deriva da Jamestown, capitale della Virginia che nel lontano 1675 fu testimone di un caso eclatante di intossicazione. Il resoconto ci è arrivato dalla penna di Robert Beverley, membro della House of Burgesses, la prima camera bassa eletta nel Nuovo Mondo con la fondazione della Colonia della Virginia nel 1619. (Il termine burgess, che originariamente indicava il libero abitante di un borgo, si riferiva a un ufficiale eletto o un rappresentante della Camera dei Comuni.)
Stando al racconto di Beverley, un gruppo di soldati britannici, inviato a Jamestown per sedare la Ribellione di Bacon (una rivolta di coloni scontenti capeggiati dall’allevatore Nathaniel Bacon), aveva raccolto una pianta locale, che poi aveva consumato in abbondanza sotto forma di boiled salad. Gli effetti dell’incauta abbuffata sui poveri soldati, trasformati in natural fools, furono descritti da Beverley come a very pleasant comedy.
Uno soffiava su una piuma per farla svolazzare, un altro la bersagliava furiosamente di pagliuzze, un altro ancora stava seduto completamente nudo in un angolo sorridendo e facendo boccacce come una scimmia. Un quarto baciava con trasporto e palpeggiava i compagni, sghignazzando con un’espressione più grottesca di quante se ne siano mai viste in una farsa.
Il teatrino andò avanti per undici giorni, durante i quali i soldati furono prudentemente confinati per evitare che si facessero del male con le loro pazzie, anche se Beverley le definì “innocenti buffonerie”. Esaurito l’effetto della stupefacente insalata, i soldati tornarono in sé senza rammentare nulla dell’accaduto (per fortuna, verrebbe da dire). Il ricordo dell’increscioso episodio, tuttavia, si tramandò da allora nel nome popolare della Datura.
Pansé
Gira gira, le ricerche sulla Datura mi hanno condotto (non chiedetemi come) dalla Virginia del XVII secolo alla Napoli contemporanea e alla viola del pensiero, immortalata nella canzone La Pansé di Gigi Pisano e Furio Rendine.
Il testo infarcito di allusioni osé e la melodia allegra della canzone sono tipici della “macchietta”: un numero comico tra monologo e canzone umoristica, nato nei café chantant parigini di fine Ottocento, che ebbe la sua consacrazione sui palcoscenici del varietà napoletano. La macchietta presentava in modo caricaturale, esasperandone i tratti fisici e psicologici, un soggetto generalmente considerato dalla società dell’epoca come anomalo, ridicolo o estraneo alla morale comune. Priva della complessità della satira, era una rappresentazione volutamente superficiale, burlesca, piena di doppi sensi, volgarità e spunti irriverenti, il cui unico scopo era suscitare l’ilarità degli spettatori. Non a caso, il termine macchietta è lo stesso con cui in pittura si indica uno schizzo essenziale che rende con poche pennellate un soggetto.
L’essenzialità della messa in scena non deve tuttavia far pensare che dietro vi fosse semplice improvvisazione. Tra gli autori delle macchiette vi erano nomi celebri come Salvatore di Giacomo, Libero Bovio, Trilussa. E interpreti del calibro di Raffaele Viviani, Ettore Petrolini, Gustavo De Marco, l’inventore del disarticolato “uomo-marionetta” reso poi celebre dall’indimenticabile Totò. La Gazzetta Musicale di Milano nel 1903 osservava:
La macchietta non è cosa facile: richiede un grande spirito d'osservazione e d'intuito, una giusta misura ed una perfetta dizione. […] la voce, la scena, lo studio meticolosamente preciso nell'imitare, nei più minuti particolari, il personaggio che incarna.
Ma torniamo alla nostra Pansé. Il primo a interpretare la canzone, sul palcoscenico del Teatro Diana di Napoli, fu Beniamino Maggio, grande esponente del teatro comico partenopeo. A causa delle numerose allusioni sessuali presenti nel testo, nel 1953 la canzone subì la censura della commissione di lettura della Rai, che si tradusse in un lungo boicottaggio con divieto di trasmissione alla radio e in televisione. Non fu l’unica canzone napoletana a incappare nelle maglie della censura, ma alla fine il successo arrivò con Renato Carosone, che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia.
Buon ascolto e buon Primo Maggio floreale!
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Arrivederci al prossimo numero!